L’attuale disegno di legge deve essere rivisto: non si possono fare riforme a costo zero per lo stato
Roma 18 luglio 2019 – Il Segretario Generale Angelo Raffaele Margiotta, nel corso di un incontro con alcuni giornalisti di settore, ha illustrato la posizione della Confsal in merito all’introduzione anche in Italia del salario minimo orario legale.
Su tale argomento si registrano nel mondo politico, economico e sindacale le più disparate prese di posizione, non sempre con la necessaria cognizione di causa.
Le parti sociali e soprattutto i sindacati dei lavoratori, anziché impegnarsi in una campagna di retroguardia tesa a contrastare un’importante innovazione, dovrebbero cogliere l’occasione per ottenere una detassazione assoluta dei redditi da lavoro più bassi.
Non si può parlare di salario minimo orario legale senza considerare norme più stringenti per contrastare fenomeni patologici: la Confsal, chiede di dare forza di legge ai CCNL di riferimento contrastando concretamente il “dumping salariale” attraverso una “contrattazione di qualità” che preveda la costituzione di una commissione formata dalle parti sociali che abbia la funzione di rilasciare ai contratti collettivi depositati presso il CNEL un attestato di conformità ai requisiti di legge.
Con riferimento alla rappresentatività – che, fino a oggi, è stata finalizzata unicamente a salvaguardare posizioni e privilegi e non a tutelare i lavoratori – il Segretario generale della Confsal, Margiotta afferma che, come unico criterio di comparazione per l’individuazione dei CCNL di riferimento, debba essere considerato il numero dei lavoratori iscritti alle OO.SS., un dato già presente nelle banche dati Inps.
Una legge sul salario minimo legale è necessaria ma pretendere di attuarla a costo zero per lo Stato, senza cioè intervenire con la leva fiscale ma scaricandone gli oneri sulle imprese, significa ignorare l’impatto economico devastante che esso avrebbe su molti settori economici.
Per la Confsal l’introduzione per legge di un salario minimo legale vuol dire stabilire: una soglia retributiva iniziale non negoziabile; un reddito equo atto a configurare la dignità economica che deve discendere dal lavoro; ridurre la moltitudine di minimi salariali di riferimento che sono troppi e segnano spesso incomprensibili differenziazioni retributive.
Per il lavoratore cambia poco, ma per le aziende cambia tutto: l’adeguamento a 8 euro, anziché a 9 euro lordi, riduce a poco più di un terzo sia la platea sia l’onere aziendale per dipendente, portando il costo della riforma a livelli senz’altro sostenibili e accettabili.
Nel contempo, l’estensione della no tax area dagli attuali 8.000 a 16.000 euro porterebbe congrui benefici salariali a tutti i lavoratori che oggi già percepiscono 8 euro lordi e oltre.
La proposta di 8 euro orari lordi (esentasse) non deve sembrare una proposta al ribasso, in quanto essa risulta una misura sicuramente equa sulla base del confronto con elementi di riferimento nazionali ed europei: è certamente al di sopra della soglia che contraddistingue le posizioni lavorative a bassa retribuzione (“low pay jobs”).
Una riforma del salario non può essere disgiunta da un indispensabile intervento in materia fiscale come l’estensione della NO TAX AREA, attraverso il quale impegnare in modo equo una prima tranche di risorse.
In altre parole si tratta di prevedere un’aliquota zero che deve obbligatoriamente costituire il primo step dell’annunciata riforma per la riduzione del carico fiscale denominata FLAT TAX. Senza l’aliquota zero, una riforma fiscale, anche con due aliquote semi-piatte (15 e 25%), risulterebbe una beffa per i redditi più bassi, che avrebbero un beneficio di poche centinaia di euro annui.